Undergraduate and graduate programmes offered by the University iuav of Venice:

Iperstimolazione digitale

 

 

La momentanea privazione di spazi aggregativi nella città, costretti nello spazio della domesticità, la cui funzione è mutata a causa di una pandemia globale, ci ha trasformati operatori di una tempestiva pratica adattativa di tempo e luogo, introiettando la necessaria vocazione pubblica nella realtà privata e viceversa.

 

Divani, letti e tavoli da cucina si sono affannosamente trasformati in luoghi di lavoro, adattandosi ad una funzione diversa da quella per la quale erano stati originariamente progettati.

 

Dalla libreria prêt-à-porter, alla sofisticata palette di colori e scelta di opere d’arte, lo sfondo delle videochiamate è diventato il subitaneo sostituto della complessa e vivace imprevedibilità dello spazio reale, che, per sua definizione, fluido e mutevole, è soggetto a cambiamenti talvolta casuali e/o causali giornalieri.

 

In particolare, la rappresentatività della propria persona viene evidenziata da quel che si vuole mostrare, dello spazio reale che momentaneamente si occupa, a chi è connesso al di là dello schermo. Chi ci vede è a noi metaforicamente legato dalle innumerevoli connessioni fisiche che permettono globalmente l’accesso a internet, creando un’alienante condizione di incorporea unione tra il proprio io reale e quello digitale, rompendo i sottili e invisibili confini che separano la realtà dalla sua virtualità (o, per meglio dire, dall’iper-realtà).

 

Durante l’emergenza sanitaria, lo spazio pubblico e la sua riconoscibilità sono stati coercitivamente abbandonati, sebbene temporaneamente: piazze, giardini pubblici, parchi urbani, così come istituzioni, sono stati improvvisamente svuotati dei propri avventori giornalieri, unici autori della trasformazione dello spazio in luogo. Questa loro condizione si rivela come tutt'altro che aliena: già Leon Krier, in Drawing for Architecture, nel quale critica con intelligenza e arguzia diversi aspetti della tradizione urbanistica e architettonica, teorizzava graficamente lo spazio pubblico della strada, come mero corridoio, per il crocevia di mezzi di trasporto e genti, o come luogo abitabile, reso vivo dalla partecipazione sociale, dipendentemente dall'assenza o presenza di un monumento o di un edificio pubblico significativo, nel punto di fuga del cono visivo prospettico dello spettatore.

 


 


fig. 1 - Disegno in Leon Krier, Drawing for Architecture, The Mit Press, Cambridge Mass. 2009. Rielaborazione dell'autore

 


 

L’evoluzione dei processi tecnologici, catalizzata negli ultimi dieci anni dall’utilizzo di piattaforme di interazione virtuale (vd. gameplay, social network, siti d'incontri, etc.), è stata foriera di scenari presenti: lo spazio digitale ha assorbito le aspirazioni e le necessità sociali che erano proprie dello spazio reale, le chat-room e le video-call sono velocemente diventate alternative, e talvolta sostitutive, dei luoghi di aggregazione tradizionali.

 

Riprendendo quindi Leon Krier e i suoi disegni, e in particolare la strada come stanza urbana, in uno scenario metaforico soggettivo (fig. 1), essa si tramuta in una trascrizione grafica di uno spazio domestico, che resta tale quando ‘fuori-fuoco’, ospitando soltanto gli elementi che confortevolmente lo caratterizzano (i.e. letto, scrivania, armadio, etc.) e diventando invece un luogo multifunzionale quando ‘a fuoco’. In quest’ultimo caso, il punto di fuga del cono ottico visivo non è più un monumento, o un edificio pubblico reale, come rappresentava Krier, bensì il computer: la macchina virtuale par excellence, che permette l’alienazione della stanza dalla sua dimensione domestica e privata, potendosi trasformare in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, continuando così il distacco dallo spazio reale e contribuendo all’assorbimento della persona nell’iperstimolazione digitale.

 

Digitale e legato all’iperattività del fare, è anche il progetto di ricerca, sviluppato durante la pandemia, dall’architetto e ricercatore del Karlsruher Institut für Technologie (KIT), Florian Bengert. Egli, rielaborando il tema della fragile protezione funzionale della domesticità, attraverso una open call via Instagram, ha chiesto a colleghi ed entusiasti di architettura di redigere una pianta del proprio nuovo temporaneo spazio di lavoro (figg. 2,3), spesso arrangiato in ambienti lontani dalla dimensione collettiva, dedicati invece, per loro concezione, ad ospitare la realtà privata. L‘intenzione del progetto è stata quella di mappare un “No-Stop-Home-Office”, liberamente influenzato dalla ricerca teorica “No-Stop City”, edita nel 1970 dal gruppo Archizoom.

 


 

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Descrizione generata automaticamente

fig. 2 - Florian Bengert, screenshot con informazioni della mostra Superstructure Home-Office. #nostophomeoffice, 13 maggio – 13 giugno 2020, Architekturalgalerie, Monaco

 


 


figg. 3 - Riccardo Squarcina, Home-Office, 2020.

In occasione della ricerca di Florian Bengert, Superstructure Home-Office. #nostophomeoffice

 


 

Come per il gruppo fiorentino, anche la ricerca di Bengert può essere letta con una chiave interpretativa critica della realtà. In particolare, in “No-Stop-Home-Office”, il bisogno repentino di adattare i propri uffici all’interno di un camouflage di stanze, in origine adibite alle più diverse ordinarie e naturali funzioni, può mostrare quella “frenesia che elimina ogni intervallo” (Byung-Chul Han, 2012, p.49), per la quale “l'iperattività è, paradossalmente, una forma estremamente passiva del fare, che non ammette più alcun agire libero” (Byung-Chul Han, 2012, p. 53). Ciò rivelerebbe l'imperante costrizione produttiva autoimpostaci, che, nonostante il fermo delle attività nello spazio fisico, ci impedisce di realizzare una sintesi contemplativa, senza la quale “lo sguardo errerebbe inquieto e non porterebbe nulla a espressione. L’arte, invece, è appunto un’attività espressiva” (Byung-Chul Han, 2012, p. 36).

 

In un’epoca post-immunologica, ci siamo ritrovati nel paradosso di dover gestire una pandemia e la momentanea impossibilità di recuperare gli spazi di lavoro collettivi ci ha spinti nel rifugio iperattivo della sostituzione digitale degli stessi, rimettendo lo spazio reale nell'unica condizione di avere immediata accessibilità a internet.

 

In una “società della prestazione” (Byung-Chul Han, 2012, p. 23), anche i luoghi di incontro e confronto all’interno delle università si sono adattati, durante questi mesi di chiusura, alla loro nuova condizione, muovendosi nello spazio offerto dai provider di teleconferenze, mutandosi in pixel ed asservendosi alla connessione virtuale. Le attività culturali, insegnamento in primis, presuppongono “un ambiente circostante in cui sia possibile un’attenzione profonda”, ma la digitalizzazione dello spazio della didattica ha progressivamente sostituito l’attenzione profonda “con una forma di attenzione ben diversa, l'iperattenzione” (Byuung-Chul Han, 2012, p. 33).

 

In una trasposizione grafica di uno scenario reale (fig. 4), la lezione ex cathedra si trasforma in ex computer e la didattica reale si trasfigura in un’iperstimolazione digitale, permettendo infinite possibilità gestionali e offrendo innumerevoli suggestioni, che internet promette di raggiungere senza bisogno dello spostamento fisico. Contemporaneamente, tuttavia, vanno prefigurandosi foschi scenari di isolamento sociale e di fagocitazione degli ambienti reali, dove l'attenzione profonda e l'interscambio culturale possono più naturalmente svilupparsi, ritrovando il tempo e il luogo per la creazione intellettuale.

 


 


fig. 4 - Riccardo Squarcina, Scenario. Università virtuale, 2020

 


 

Anche il progetto di architettura si svolge nello spazio virtuale e la discussione creativa avviene telematicamente (fig. 5), posticipando temporaneamente la sintesi contemplativa in favore di una iperattività creativa, che lo spirito adattativo comunque manovra e dirige verso una moderazione produttiva, permettendo all’espressione di svilupparsi in un terreno poliedrico, iper possibilista, certamente non manchevole di criticità.

 


 


fig. 5 - Riccardo Squarcina, con Vittorio Perotti e Giovanni Zanin, Scenario. Iterazioni multiple, 2020

 


 

In una rilettura del contesto presente, si prefigurano infine due scenari metaforici soggettivi (figg. 6,7), nei quali lo spazio digitale e lo spazio reale si uniscono in un confronto dialettico, interrogando criticamente il futuro della didattica. Questa, sviluppandosi non più per necessità, ma con volontà, in una dimensione para-virtuale, alle possibilità digitali non contrappone un cinico atteggiamento neo-luddista, bensì uno sguardo speranzoso alla positiva integrazione delle due realtà: l’istruzione si pone così alla guida di una educazione al cambiamento consapevole, dove l'insegnamento trova ragione di trasmissione solo nel confronto critico con l'altro, scongiurando un esasperato solipsismo a cui, in una “positivizzazione totale del mondo” (Byung-Chul Han, 2012, p. 52), l’iperstimolo digitale potrebbe condurre.

 


 


fig. 6 - Riccardo Squarcina, Scenario. Università para virtuale, 2020

 


 

Immagine che contiene testo, elettronico, screenshot, schermo

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fig. 7 - Riccardo Squarcina, Scenario. Odissea nello spazio, 2020. Da un frame di Stanley Kubrick, 2001: A Space Odyssey, 1968

 


 

 

 

bibliografia

 

Byung-Chul Han

La società della stanchezza, Nottetempo ed., Milano 2012, (Müdigkeitsgesellschaft – Burnoutgesellschaft – Hoch-Zeit, Matthes & Seitz, Berlin 2010).

 

Leon Krier

Drawing for Architecture, The MIT Press, Cambridge Mass. 2009.