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Il gioco delle città possibili

 

 

Nel libro Le città invisibili Italo Calvino descrive il viaggio di Marco Polo attraverso le cinquantacinque città che hanno nomi di donne come “il percorso attraverso la nostra vita”, attraverso quella che “è stata la città per gli uomini come luogo della memoria e dei desideri”.

Nel momento in cui è sempre più difficile vivere nelle città, anche se non ne possiamo fare a meno, è giusto, secondo Calvino, interrogarci sul cos’è e su cosa dovrebbe essere la città per noi.

 

Dando forma, nella mente soggettiva del lettore, ai luoghi che si leggono nel susseguirsi dei racconti, si potrebbe affermare che le città invisibili descritte rappresentino utopie in senso proprio, città che vengono abitate al di fuori del sistema di coordinate spazio-temporali da noi conosciuto.

Attraverso il confronto continuo fra le varie città descritte, il racconto allude alla leggerezza del possibile che si esprime con l’ossessione di superare ipotesi e possibilità già vagliate, permettendo di immaginare una realtà antagonista alla città realmente esistente, a cui il lettore potrebbe pensare sulla base delle sue esperienze. Tutte le città contengono, in diversa misura, l’immagine di ciò che poteva essere e invece non è stato, l’idea di una pluralità di strade o sviluppi, drasticamente ridotti e tagliati, tenendo bene in considerazione che la realtà del presente è solo uno tra i possibili futuri, mentre gli altri restano invisibili.

Le città invisibili sono città discontinue a partire dalla loro stessa narrazione, contraddittorie e difficili da figurare; la loro forza non è solo nel dato estetico, quanto piuttosto nella loro dimensione utopica, intesa non come l’evasione nel fantastico ma come la capacità di immaginare un mondo diverso, nonché il desiderio di abitarlo.

 

La lettura e rilettura del libro mi ha portato a un ragionamento sulla trasformazione della città in un’ottica prospettica: una riabilitazione dell’utopia, mettendo in discussione un mondo pensato in tutti i suoi dettagli, proponendo altri valori e altri rapporti e problematizzando i nuovi condizionamenti interiori ed esteriori delle città.

Parlando della città, non c’è mai una sola storia da raccontare. Oggi, per farlo, è certamente necessario partire da un ragionamento poliedrico che prenda in considerazione aspetti sociali, economici, politici, ma anche il degrado ambientale, la privatizzazione di beni comuni e l’imbarbarimento della conversazione pubblica.

Questa però non è l’unica storia che può essere proposta: tante volte, soprattutto nei luoghi della formazione, si sente parlare di progettualità e di piccoli spazi di straordinarietà all’interno dell’ordinarietà. È la storia di una costellazione di persone, comunità, reti, organizzazioni e istituzioni che oggi, e in questi anni, hanno immaginato e praticato modi di essere e di fare partecipativi, collaborativi, dialogici e progettuali. Così facendo si pongono in radicale contrasto con le idee e le pratiche del pensiero dominante in un mondo in costante accelerazione e crescente incertezza, caratterizzato dal restringimento progressivo della tutela della società nei confronti dei singoli e da un sistema che impedisce a individui, gruppi e istituzioni di stabilire in questa grande complessità correlazioni chiare tra obiettivi desiderabili e strumenti per perseguirli.

 

Una risposta a tali questioni è stata fornita dalla scomposizione e settorializzazione della complessità dell’esistente in unità più piccole, direttamente osservabili attraverso insiemi di indicatori inquadrabili come ‘problemi’ ai quali, attraverso un’adeguata progettazione, si possono trovare ‘soluzioni’ tecniche di diversi ordini e gradi. Alcune soluzioni prodotte con questo approccio possono avere un grande valore puntuale, ma troppo spesso si corre anche il rischio che si trasformino in risposte semplicistiche a problemi complessi che dovrebbero essere affrontati in modo sistemico.

Negli ultimi anni, nel linguaggio specialistico il termine ‘innovazione sociale’ indica nuove forme di progettazione, produzione e distribuzione di beni o servizi culturali, che non di rado costruiscono forme di valore condiviso e di coesione sociale, nell’ottica del coinvolgimento attivo degli incubatori di sapere nella città, per immaginare e costruire nuove prospettive. Forse bisognerebbe partire dai modi con i quali costruiamo il senso delle interazioni tra esseri umani e, più in generale, a come attribuiamo senso nel mondo intorno a noi. In quest’ottica, perché una pratica di qualsiasi tipo assuma un senso condiviso tra esseri umani, è necessario che si costruiscano dei ponti tra esperienza dei singoli e significati, simboli, codifiche e ricodifiche che avvengono nelle città.

 

“Capii che dovevo liberarmi dalle immagini che fin qui m’avevano annunciato le cose che cercavo: solo allora sarei riuscito a intendere il linguaggio” - Italo Calvino, Le città invisibili.

 

Cosa accadrebbe se, in un’ottica di innovazione culturale, si mettessero in discussione tutti i processi che hanno definito le città e i modi di vedere e vivere le città? Quali nuove prospettive emergerebbero?

L’effervescenza sociale che caratterizza i momenti fortemente generativi in termini di pratiche e di costruzione di senso condiviso non è immediatamente riconducibile a degli elementi primi, né tantomeno a problemi più piccoli da affrontare separatamente. Sarebbe necessario trovare nuovi e migliori modi di integrare le prospettive progettuali e quelle culturali nella ‘costruzione di senso’, facendo detonare quei momenti fisici e virtuali nei quali vigono l’ambiguità, la complessità e l’imprevisto. La conclusione de Le città invisibili è esemplare in tal senso, dimostrando l’ancoraggio del libro nel presente: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio”.

 


 


 

C. Stanga, Anastasia, dal libro Le città invisibili di Italo Calvino, 2014