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Architetti senza prospettive

 

 

Dobbiamo gioire perché le discussioni che hanno animato il dibattito architettonico durante il lockdown hanno trovato compimento: dopo circa otto mesi viviamo in città a prova di virus, completamente smart, con edifici ultra moderni immersi in grandissimi spazi verdi, dove il distanziamento è sempre garantito da sistemi viabilistici innovativi.

 

E invece no. Ciò che rimane dopo otto mesi dall’inizio delle restrizioni è un senso di desolazione per una triste conferma: la demagogia imperversa anche nel campo dell’architettura. La pandemia di SARS-CoV-2, senza nulla togliere alla tragedia che ha investito il mondo intero, è oggettivamente una parentesi che, basandosi sulle voci provenienti dal mondo scientifico, troverà la sua chiusura in circa due anni. Perché allora le proposte dei vari architetti-demagoghi danno maggior credito ad una questione a breve termine, dimenticandosi di ciò su cui si dibatte da anni? Vi è malanno ancor peggiore rispetto alla pandemia in atto, ovvero l’incapacità di concentrarsi su ciò che è veramente necessario, perché la situazione che stiamo vivendo ha innegabilmente una data di scadenza. Ecco perché c’è da rimanere sbalorditi quando si leggono alcune delle soluzioni messe in campo. Tra le varie, ci sono modifiche sostanziali delle città, attraverso una riduzione della loro densità, o il recupero di piccoli centri rurali ormai abbandonati. Soluzioni tanto ammalianti quanto risibili, emblema del nostro tempo, in cui l’apparenza degli slogan effimeri è più potente della reale fattibilità di una proposta: modificare le città in maniera tempestiva, per contrastare condizioni che variano di settimana in settimana, se non da un giorno all’altro, è alquanto impraticabile. Lo stesso vale per il recupero di quei piccoli nuclei che, per quanto sia una proposta romantica e dal sapore bucolico, è fuori da ogni logica emergenziale e rapida, inutile quindi nella risposta alle esigenze pandemiche. Essa inoltre dimentica, o omette volutamente, i motivi che ne hanno decretato l’abbandono, come la carenza di molteplici servizi offerti invece dalle città, per dirne uno tra i più banali. Ma ancora più sconcertante è che ci si scordi di questioni che inesorabilmente continuano ad accompagnarci, come il consumo di suolo e l’aumento demografico. Che senso ha quindi ridurre la densità delle città e spostare le persone altrove quando stiamo cercando di evitare di consumare nuovo suolo e vogliamo restituire terreno naturale agli abitanti? Ma soprattutto, che senso ha farlo per rispondere a un qualcosa che è a tempo determinato? È un copione già visto: ci si focalizza ottusamente sulla questione del momento dimenticando tutto il resto, come se ragionassimo a settori stagni. Seppur in contesti diversi, la storia regala degli esempi di questa ottusità: accadde nel dopoguerra quando ci si focalizzò sui centri storici, dimenticando le periferie che, nel frattempo, crescevano e sommavano innumerevoli problemi dei quali ci si accorse troppo tardi. Poi ci si concentrò sulle periferie, scordandosi di monitorare i centri storici che, in modo particolare nelle città turistiche, sono diventati dei luoghi in cui è più probabile incontrare un turista che un residente. Oggi, in tempo di pandemia, ci si vorrebbe concentrare su questioni in contrasto con quanto si è discusso fino a ieri e che dovremo affrontare anche un domani? Ci si vorrebbe concentrare su questioni dagli effetti decennali quando ciò che realmente serve è la rapidità? Ho sempre sofferto la capacità di molti, troppi architetti di parlare del nulla e concentrare i loro sforzi su questioni astruse, utili alla mera gloria personale, dimenticandosi che il fine di questa professione è il benessere di chi l’edificio o la città la vive tutti i giorni. In questi mesi, invece che chiacchierare molto e concludere poco, ci si sarebbe potuti concentrare su quei temi che realmente andavano rivisti: la casa, la scuola e la mobilità locale. Si potevano fornire alle persone, pensando in particolare a quelle che vivono in spazi angusti, degli strumenti per rendere le proprie abitazioni più confortevoli, vista la costrizione imposta dal lockdown che ne ha modificato la natura da luogo domestico a luogo produttivo. Si sarebbero potute ricollocare le classi, vedasi l’esempio di Bologna, dove gli spazi scolastici sono stati collocati all’interno della fiera. Per arrivare al trasporto locale che, seppur questione prettamente amministrativa, avrebbe meritato maggiore attenzione da chi propone soluzioni in contesti urbani. Questa pandemia ci ha dimostrato che le soluzioni più efficaci sono in seno alle istituzioni pubbliche e sono intangibili, sono regole, pertanto non bisogna avere il timore di riconoscere che, in alcuni casi, l’architettura non è per forza la risposta migliore. Ciò che purtroppo manca, ai più, è una visione a lungo termine, in grado di pesare correttamente le questioni, in grado di comprendere che alla pandemia la risposta più utile è quella veloce e temporanea. Una visione che ponga un traguardo e, prima ancora di raggiungerlo, si ponga il dubbio che forse ve ne sia uno successivo. Una visione di futuro che, stante quelle questioni che ci accompagnano annose, prosegua nella ricerca di nuovi spazi senza però consumare ulteriore suolo. Spazi che in prospettiva scarseggiano e vanno ricercati sulla terra, sul mare, ma anche altrove.

 


Immagine che contiene cielo notturno

Descrizione generata automaticamente

 

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