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Sights without sign

 

 

Era il 1948, l’anno della Nakba, la catastrofe palestinese. Le famiglie provenienti dai villaggi di Al-Houla, Safad e Acre si incontrarono sul cammino e presero insieme la decisione di accamparsi nella piccola landa di terra che al tempo dei crociati ospitava un’austera torre di controllo, che diede poi il nome al campo: “Torre del Nord”. I primi anni videro il proliferare di tende e fu a quel tempo che vennero definiti i confini, limitandoli ad un chilometro quadrato. A poco a poco le tende si trasformarono in baracche precarie, fatte di lamiera ed altri materiali trovati a buon mercato. Il freddo invernale divenne così leggermente più sopportabile e le infiltrazioni d’acqua più rade.

 

Negli anni ’60 e ’70 con l’arrivo dell’OLP in Libano, si iniziò per la prima volta a erigere costruzioni in cemento armato. Comparvero i primi ospedali della Mezza Luna Rossa e le prime scuole elementari e medie dell’UNRWA.

 

In seguito ai due bombardamenti israeliani durante gli anni della guerra civile, in cui furono ridotti in macerie tanti muri quanti uomini, si intensificarono le costruzioni e le ricostruzioni, aggiungendo ulteriori piani agli edifici già esistenti. La popolazione crebbe e la necessità di costruire case anche. Oggi in media ogni edificio ha tre o quattro piani e la distanza tra l’uno e l’altro è di massimo due metri. Fitte e strette viuzze si diramano per il campo convergendo confusamente nella via principale, l’unica in cui riescono a passare due macchine contemporaneamente – non sempre senza inconvenienti o scontri. Il sole quasi non si vede, se si alza lo sguardo si scorgono solo un’infinità di cavi elettrici aggrovigliati, all’apparenza frettolosamente e senza seguir logica. Tocca salire in cima ai palazzi più alti, su quei grandi tetti piatti, per assaporare il piacere del cielo e godere un po’ di tranquillità. Motorini, macchine, donne, uomini, bambini, commercianti popolano le strade del campo dalle prime ore del mattino a tarda notte. Per comprenderne la confusione, basta pensare che in questo chilometro quadrato – murato e controllato all’entrata da un check-point militare – vivono all’incirca ventitremila persone. Ventiduemila sono i profughi palestinesi insediatisi dal 1948, ora giunti alla quarta generazione, e il restante sono profughi siriani arrivati in seguito alla guerra civile del 2011.

 

Nel corso degli anni hanno occupato le strade per rivendicare i loro diritti al lavoro, all’educazione e alla sanità. Lo fanno ancora oggi, nel silenzio dei media. Chiedono l’abolizione delle leggi che limitano loro l’accesso al lavoro, che impediscono l’acquisto di un immobile all’esterno del campo. Chiedono la revocazione dei tagli ai fondi dell’UNRWA, che da ‘organizzazione temporanea’ qual era, continua a rappresentare il solo mezzo per accedere ad un’educazione, seppure precaria, ed un’assistenza sanitaria, altrettanto precaria, non contando le realtà locali ed internazionali che spesso lavorano più per proprio profitto personale che per il bene della comunità. Chiedono di poter vivere dignitosamente in uno Stato che li ospita da più di settant’anni.

 

Levano una voce forte e chiara dalle strade di quell’angolo di mondo.

 

A noi basta provare a sentirli… e volerli ascoltare.

 


 

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