Els carrers
“Els carrers seran sempre nostre” (le strade saranno sempre
nostre) gridano con tono solenne migliaia e migliaia di studenti marciando su Paseig Sant Juan, come un
esercito mercenario.
Sono
giorni di tensione a Barcellona dopo la sentenza di condanna emessa dalla corte
suprema spagnola nei confronti dei leader dell’indipendentismo catalano.
È
il 16 ottobre 2019, terzo giorno delle intense proteste e azioni iniziate
lunedì 14, con l’occupazione dell’aeroporto El
Prat diretta da “Tzunami
Democratic”, un movimento organizzato per il
secessionismo catalano.
È
sera e camera mia lampeggia di blu. Fuori dalla finestra decine di poliziotti,
camionette e una tempesta di manifestanti si agitano per le strade. Devo uscire
per andare a cena e porto con me la macchina fotografica. L’aria è
irrespirabile per via dei cassonetti bruciati, ma non posso coprirmi il volto
perché rischierei di essere arrestata se scambiata per
un’indipendentista. Devo muovermi a piedi: sono giorni in cui le strade
principali sono occupate e i mezzi di trasporto faticano a circolare. Giro
l’angolo, una schiera di mossos (polizia
catalana) e manifestanti è separata da mura di plastica infuocata in una
“battaglia per la narrazione” nella quale i manifestanti non hanno
scelto la via della non-violenza, probabilmente perché ne hanno subita più di
quanta oggi possano infliggere.
“llibertat presos politics” (libertà dei prigionieri politici)
urlano a squarcia gola migliaia di volti illuminati dalle fiamme, rivendicando
la scarcerazione dei leader indipendentisti condannati dai nove ai tredici anni
di carcere per sedizione, un reato contro l’ordine pubblico.
Un
signore tira acqua dal balcone per spegnere l’incendio, il suo vicino sta
lanciando qualcosa di simile a dell’esplosivo dal terrazzo a fianco.
Sono
tre le macchine che hanno preso fuoco e una squadra di pompieri, tra gli
sguardi dei manifestanti e qualche applauso, scongiura quella che sarebbe
potuta diventare una tragedia.
Occupata,
bruciata e rivendicata “La strada sarà sempre nostra”, continuano a
gridare. Io rimango inerme a pensare, cercando solo di immaginare
l’intensità e le dimensioni della lenta violenza che ha portato a
compiere questi gesti simbolici.
Il
mattino seguente tutto sembra tornato alla normalità e la vita a scorrere per
le strade, ma ci sono grossi buchi sull’asfalto, sui muri leggo scritte
di libertà e mentre cammino mi accorgo che alcune mattonelle sono state
sottratte dal marciapiede. Mi guardo intorno e tra gli sguardi increduli dei
turisti mi appare un paesaggio urbano ferito. L’Eixample
è diventato un terreno di guerra, la città stratificata è stata spellata, ieri
notte qualcosa è accaduto e qualcosa è cambiato, se respiro profondamente posso
ancora sentire l’odore acre di plastica bruciata.
Foto dal finestrino
Spazzatura e luci al neon, strade bucherellate e all’orizzonte lussuosi grattacieli sbucano come funghi. È il paesaggio di Città del Messico che si snoda di fronte a me, in questa calda e soleggiata mattinata di marzo. L’aria odora di maiale fritto misto a benzina. Dopo essere rimasti imbottigliati nel traffico selvaggio per qualche mezz’ora, raggiungiamo il Parque Lineal. Città del Messico è un collage: colori, persone, edifici si sommano in un susseguirsi apparentemente illogico. Le strade parlanti sono animate dagli abitanti che le occupano con baracche e banchi per la vendita di cibo. Insegne al neon di Coca Cola decorano ogni bar o piccola attività. Molti negozi sembrano piuttosto dei magazzini, sporchi e pieni di tempo. Al nostro passare suscitiamo stupore, siamo un evento; quando scatto le fotografie in molti sono felici, sembrano gratificati, forse pensano che diventeranno famosi, io li ringrazio per la storia che mi hanno regalato. Sono impressionata dall’uso che queste persone fanno della strada e di come la dipingano con mille colori, quasi come una vecchia donna fa con il trucco. Nonostante la povertà che trasuda da certi angoli, le persone sembrano placide, in siesta. Un manto di fiori viola ricopre la strada. Scatto velocemente fotografie a questo incredibile susseguirsi di piccoli negozi e macchine ri-assemblate e ri-verniciate. Foto dal finestrino penso, come scattate da una macchina che sfreccia sull’asfalto. Ci troviamo lungo il ferrocarril dove gli architetti Gaeta-Springall hanno realizzato un parco lineare per riqualificare questo ramo di strada che collega e separa due brani di Città del Messico, la parte povera e quella ricca. Attrezzature per lo sport, giochi, uno skatepark, tanti graffiti, passaggi pedonali, sono solo alcuni degli interventi per riempire di vita questo lembo di città. Intervistiamo una famiglia che vive in una casa molto modesta al lato delle rotaie. Un bambino, che a occhio e croce avrà avuto dodici anni, ci racconta che da grande sogna di fare l’architetto e che durante i lavori per la riqualificazione ha partecipato entusiasta con le sue idee: una zona per i giochi, una piscina, delle telecamere e pochi alberi, cosicché i ladri non possano arrampicarsi ed entrare a rubare nelle case. Sua madre racconta che finalmente è più tranquilla a lasciare suo figlio giocare fuori casa, anche se per via degli interventi e della costruzione di nuove palazzine – afferma – i ladri pensano che sia un quartiere ricco, così che i furti sono aumentati. Proseguendo lungo il ferrocarril, un uomo con un cappello di paglia tira fuori dal suo carretto qualche merce da vendere sulle rotaie nel frattempo che non passa il treno. Sigarette, cioccolatini, qualche scatola di caramelle e poco altro.
Continuando lungo il tracciato ferrato compare in controluce il museo Soumaya dell’architetto Fernando Romero. Ci siamo lasciati alle spalle la parte più antica che in un batter d’occhio è stata sostituita da nuovi e scintillanti simboli del progresso e della cultura contemporanea. Anche le persone sono diverse, le loro facce sono diverse, i loro vestiti, le loro macchine e i loro sguardi non sono quelli di qualche minuto fa. Un manto di fiori viola ricopre anche qui la strada senza fare differenze. Nonostante legate dal ferrocarril e a pochi chilometri di distanza, ho la sensazione di essere in una città dentro la città.